Grande distribuzione e agricoltura: la filiera dello squilibrio

Dietro ogni sconto in corsia c’è un agricoltore che lavora in perdita. L’inchiesta di Internazionale apre uno squarcio sul meccanismo opaco del “ristorno”: una pratica legale che alimenta squilibri, sfruttamento e silenzi

da Ilaria De Marinis
grande distribuzione

In agricoltura c’è una regola non scritta ma obbligatoria: se vuoi che il tuo prodotto finisca sugli scaffali della grande distribuzione organizzata, devi pagare. Non con una tangente, non con una bustarella, ma tutto perfettamente legale, tutto nero su bianco nei contratti, con il dettaglio di una trattenuta che arriva fino al 14% del valore delle vendite. Si chiama ristorno, ma per molti produttori è semplicemente il prezzo da pagare per non sparire. A raccontare con chiarezza questo meccanismo opaco è l’inchiesta di Stefano Liberti, pubblicata su Internazionale il 14 luglio. Il sistema, spiega, funziona così: il supermercato pretende un “contributo” per la logistica, per il marketing, per l’esposizione. In realtà è un balzello imposto con la forza contrattuale di chi può dettare le condizioni. E chi non accetta, viene tagliato fuori.

Il ristorno è il tributo da pagare per lavorare con loro. Se non lo accetti, resti fuori”, le parole di un agricoltore campano riportate da Liberti. E un imprenditore ortofrutticolo pugliese rincara: “È un’imposizione. Nessuno la chiama per quello che è: un’estorsione mascherata da collaborazione”.

La logica è chiara: tu produci, loro incassano. A decidere il prezzo – e chi resta in gioco – è chi controlla lo scaffale. Non importa quanto valga davvero una cassetta di pomodori. Importa quanto sei disposto a restituire in cambio di visibilità.

Grande distribuzione e la legalità dell’abuso

Il meccanismo, formalmente legale, è diventato sistemico. E proprio questo è il punto. Le aziende agricole accettano le condizioni per non perdere i volumi di vendita, le cooperative firmano accordi capestro, e la GDO trattiene percentuali che non vengono reinvestite nel miglioramento della filiera, ma nel proprio margine.

Eppure, nulla di tutto questo appare per quello che è. I ristorni vengono scritti nero su bianco, con formule apparentemente tecniche, spesso inseriti nei contratti come contributi per la logistica o per il posizionamento a scaffale, ma nei fatti rappresentano un prelievo forzato legittimato dal dislivello di potere. La legge li permette, purché siano concordati, ma concordare qualcosa in un contesto dove una parte detta le condizioni e l’altra può solo adeguarsi significa svuotare il concetto stesso di accordo. È qui che la legalità si piega alla convenienza di chi controlla il mercato: si finge garanzia di correttezza, ma finisce per normalizzare l’asimmetria.

Quello che colpisce, come sottolinea l’inchiesta di Liberti, è la trasformazione progressiva di una prassi discutibile in una regola tacita. Nessuno la chiama più con il suo nome, nessuno la espone pubblicamente, ma tutti – fornitori, mediatori, cooperative – si muovono dentro questo schema, consapevoli che non accettarlo significa restare fuori. È un gioco a somma zero in cui i margini veri vengono sacrificati per restare visibili, per occupare uno spazio sullo scaffale, per non scomparire dalla mappa della distribuzione.

Il paradosso è che questo sistema continua a essere raccontato come un’eccezione, una deviazione dai principi di mercato, quando in realtà ne è ormai l’architrave. Non una distorsione, ma la regola. E più la filiera si allunga, più diventa difficile distinguere chi davvero trae vantaggio e chi semplicemente sopravvive. Di fronte a questo squilibrio, la cornice legale non basta a garantire equità: finisce anzi per mascherare, sotto l’apparenza di trasparenza contrattuale, una dinamica che ha poco a che fare con la libera contrattazione e molto con la subordinazione sistemica.

I margini reali, il prezzo apparente

C’è un dettaglio tecnico che racconta bene la sproporzione: il prezzo che il consumatore paga non tiene conto dello sconto che il produttore ha dovuto concedere. Il listino a scaffale viene calcolato sulla base del prezzo nominale, non su quello reale. In pratica, il supermercato trattiene il ristorno, ma fa pagare l’intero ammontare al cliente. Una doppia rendita: a monte e a valle.

Il prezzo applicato al consumatore finale è costruito sul listino nominale, non su quello scontato che il produttore è costretto ad applicare”, spiega Liberti, riportando una delle tante storture sistemiche che favoriscono la grande distribuzione a scapito della trasparenza e della sostenibilità economica. Il paradosso è che questo “contributo” obbligatorio non viene mai mostrato chiaramente nei bilanci o nelle etichette: “È un elemento occulto del sistema che nessuno vede, ma che tutti subiscono”, dice uno dei fornitori intervistati da Liberti.

Nel frattempo, i produttori agricoli si vedono costretti a lavorare con margini sempre più risicati. Molti – come riportato anche nell’inchiesta – preferiscono lasciare frutti sugli alberi piuttosto che raccoglierli in perdita. Una scelta obbligata che non è né inefficienza né spreco, ma puro autoconservazionismo economico.

Le sanzioni non fanno paura

Nel biennio 2023–2024, l’Ispettorato centrale per la repressione delle frodi ha comminato 665.000 euro di sanzioni. Una cifra che sulla carta può apparire incisiva, ma che si svuota di significato appena viene messa in rapporto con l’enormità delle pratiche scorrette ormai radicate nei rapporti tra agricoltura e distribuzione. Secondo le stime, il valore di queste condotte supera i 350 milioni di euro l’anno: un ordine di grandezza tale da rendere l’azione repressiva poco più che simbolica, incapace di incidere davvero sul comportamento degli attori dominanti della filiera. È un effetto placebo: crea l’illusione di un controllo, ma non sposta gli equilibri.

Il vero problema è che queste sanzioni non scalfiscono il modello, non ne intaccano la struttura. Le grandi centrali di acquisto possono permettersi di assorbire le multe come costi collaterali, mentre le conseguenze operative ricadono a valle, su chi ha meno margine per resistere. Le aziende agricole più piccole, spesso a conduzione familiare, finiscono per logorarsi lentamente, obbligate a scegliere tra l’adeguamento silenzioso e la marginalizzazione economica. Chi non può più reggere, rinuncia; chi resta in piedi, si adatta, ma al prezzo di uno spostamento del rischio. E a pagarlo non è mai chi impone le condizioni, ma chi lavora nei campi, chi riceve subappalti sottocosto, chi presta manodopera invisibile sotto il ricatto del bisogno.

In questo contesto, lo sfruttamento diventa una conseguenza sistemica, non un’anomalia. Si manifesta in forme più o meno visibili, ma ha radici comuni: il dislivello di potere lungo la filiera, l’assenza di tutele contrattuali reali, la pressione costante sul prezzo. Il caporalato non è solo un fenomeno illegale da reprimere, ma l’esito finale di un sistema che consente di comprimere il costo del lavoro fino all’insostenibilità, e che tollera che questa compressione venga delegata ad attori informali, laddove non è più conveniente farlo alla luce del sole.

grande distribuzione agricoltura

Grande distribuzione e agricoltura: chi lavora per chi

Sette euro. È questa la quota che resta in mano all’agricoltore ogni volta che il consumatore ne spende cento per acquistare prodotti agricoli. Lo ricorda Liberti nella parte conclusiva della sua inchiesta, ed è una cifra che fotografa con brutale semplicità la sproporzione tra chi produce valore e chi lo incassa. Il resto – quei novantatré euro – si disperde lungo la filiera: trasformazione, trasporto, logistica, packaging, marketing, e soprattutto, distribuzione.

Ma non è una semplice questione di “tanti passaggi”. È una questione di potere. La grande distribuzione organizza l’intera catena secondo logiche che vanno ben oltre la vendita: determina i volumi, impone i prezzi, decide la posizione a scaffale, detta i tempi della stagionalità (ormai finta), stabilisce chi sopravvive e chi viene spinto fuori mercato. In alcuni casi, arriva perfino a suggerire la varietà di prodotto da coltivare, se più “instagrammabile” o meglio “impilabile”.

In questa architettura, l’agricoltore è il primo anello, ma anche il più sacrificabile. Gli si chiede di essere flessibile, competitivo, certificato, puntuale, ecosostenibile. Ma senza garantirgli un margine sufficiente nemmeno per coprire i costi.

E il consumatore? Più spesso di quanto creda, diventa inconsapevolmente complice. Perché il sistema è disegnato per sembrare trasparente: etichette dettagliate, offerte lampo, illusioni di tracciabilità. Il cliente crede di scegliere in libertà, ma spesso ha davanti una varietà apparente, costruita da pochi gruppi industriali che controllano sia la produzione che la distribuzione. E quando punta il dito sul costo “troppo alto” di un prodotto equo o locale, ignora che il prezzo a cui è abituato – quello iper-competitivo dei discount – è spesso frutto di squilibri contrattuali, sconti imposti e sfruttamento a monte.

Il risultato è un mercato drogato, in cui chi lavora la terra non ha più voce, e chi compra il prodotto non sa più cosa sta davvero pagando. Cambiare questo stato di cose non significa rinunciare alla convenienza, ma ridefinire il significato stesso di valore. Significa chiedersi non quanto costa qualcosa, ma a chi costa.

Riforma o rassegnazione

Non basterà una sanzione in più, né un’app di tracciabilità a dare respiro all’agricoltura italiana. Serve un ripensamento radicale della filiera agroalimentare. Serve una legge che riequilibri i poteri contrattuali, impedisca ristorni mascherati e garantisca prezzi equi come diritto, non come concessione.

Ma serve anche una presa di coscienza collettiva. Non è solo un tema di giustizia economica. E serve, soprattutto, che i produttori non restino soli. L’unico modo per opporsi a un sistema così sbilanciato è fare massa critica: unirsi, aggregarsi, costruire reti solide e consapevoli capaci di contrattare con maggiore forza. Dove l’individuo non può trattare, il gruppo può resistere. Perché finché ogni agricoltore negozierà da solo, la grande distribuzione continuerà a dettare le condizioni.

Ogni euro speso al supermercato è una scelta politica. E il modo in cui lo spendiamo può cambiare molto più di quanto crediamo. Ma anche il modo in cui ci organizziamo per produrre può diventare un atto di resistenza.

 

Ilaria De Marinis
©fruitjournal.com

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