Ancora in parte da comprendere, la Kiwifruit Vine Decline Syndrome (KVDS), meglio nota come moria del kiwi, rappresenta una delle sfide più significative e controverse per la coltura dell’actinidia, sia a polpa verde che a polpa gialla. Segnalata per la prima volta nel 2012 a Verona (Tacconi et al.), la moria del kiwi, caratterizzata dal rapido deperimento e morte delle piante, ha suscitato un intenso dibattito tra agronomi, ricercatori e coltivatori. Le cause di questo fenomeno sono oggetto di numerose interpretazioni, con diverse scuole di pensiero che propongono visioni spesso contrastanti. Alcuni esperti attribuiscono il problema a infezioni patogene, altri a condizioni ambientali avverse. Tuttavia, emergono sempre più studi scientifici che suggeriscono un’altra possibile teoria, secondo cui la moria del kiwi potrebbe essere una fisiopatia legata a pratiche irrigue errate. Ma quale sarà l’interpretazione corretta? E come si può contrastare questa problematica?
Moria del kiwi: come si manifesta
I primi segnali che indicano la presenza della moria del kiwi si manifestano a partire da giugno-luglio, in corrispondenza della massima attività evapotraspirativa e includono l’ingiallimento delle foglie, l’avvizzimento dei germogli e un generale deperimento della chioma. Con il progredire della sindrome, si possono osservare sintomi come la riduzione della pezzatura e la mancata maturazione dei frutti, l’appassimento e la caduta prematura delle foglie, e la comparsa di aree necrotiche su tronco e rami principali. Nel suo stadio terminale, questi sintomi portano la pianta a una morte rapida a causa del collasso sistemico.
La velocità di progressione della KVDS non è casuale: l’insorgenza della moria del kiwi ha origine dall’apparato radicale, che presenta segni di marciume e deperimento si dalle prime fasi, anche se questi non sono visibili dall’esterno del terreno. Uno degli aspetti più insidiosi della moria del kiwi è che l’actinidia può continuare a vegetare e produrre anche con una compromissione delle radici pari a circa il 65%. Questo significa che la pianta manifesta i primi sintomi nella parte epigea solo quando la sindrome è in uno stadio avanzato e la situazione è pressoché irreversibile.
Cause e gestione della moria del kiwi
Secondo alcune scuole di pensiero si tratta di una fisiopatia legata all’eccesso idrico, pertanto la difesa delle piante deve essere attuata attraverso la gestione di suolo e acqua.
Nonostante la moria del kiwi sia sotto i riflettori della ricerca da diversi anni, non risulta ancora chiara la comprensione delle sue cause eziologiche e quindi, non sono ancora state sviluppate soluzioni tecniche utili alla risoluzione della problematica. Diversi studi, però, hanno evidenziato che si tratta di una sindrome complessa in cui risultano determinanti vari fattori abiotici, come le proprietà fisiche del suolo e la gestione idrica degli impianti. È stato osservato che la moria si manifesta in percentuali maggiori in presenza di ristagno idrico.
Pur necessitando di abbondante acqua, la pianta del kiwi, predilige terreni ben areati e teme i ristagni idrici, che possono causare asfissia radicale.
Il ristagno idrico viene inquadrato come la causa principale del fenomeno, ma non l’unica. Le radici dei kiwi, prive di ossigeno, vanno in sofferenza e sono più suscettibili agli attacchi di funghi anaerobici, che complicano ulteriormente il quadro sintomatologico. Questi funghi, però, non rappresentano la causa scatenante della problematica, ma una conseguenza che aggrava i sintomi.
Accorgimenti agronomici per contrastare la moria del kiwi
Non esiste ancora un protocollo di coltivazione che metta al sicuro le piante dalla moria, ma ci sono degli accorgimenti per ridurne l’incidenza.
La scelta di un terreno ben strutturato è la fondamentale ancor prima di effettuare l’impianto di un actinidieto. Favorire l’arieggiamento e migliorare il contenuto di sostanza organica nel suolo, a patto che questa sia stabile, rappresentano passaggi essenziali per garantire la salute delle piante. Sistemare il terreno con baulature e mantenere l’interfila inerbita può garantire una migliore ossigenazione del suolo, preservando la zona del colletto dal ristagno idrico.
Il kiwi necessita di abbondanti quantitativi di acqua, tuttavia non possono essere effettuati interventi giornalieri con volumi fissi. La pratica ideale prevede il monitoraggio costante dello stato idrico del terreno attraverso delle sonde e la successiva gestione razionale dell’acqua di irrigazione. Non è prudente affidarsi alle apparenze esterne, poiché i primi sintomi della moria del kiwi, come l’ingiallimento e il disseccamento delle foglie, possono essere confusi con una carenza idrica, portando ad aumentare i turni o i volumi irrigui e peggiorando la problematica.
Anche il metodo di irrigazione incide sull’efficienza delle pratiche irrigue. L’adozione di impianti dotati di ali gocciolanti posizionate all’altezza delle prime ramificazioni delle piante permette di garantire una maggiore umidità relativa dell’area sottostante le chiome, molto apprezzata dall’actinidia, senza ostacolare il passaggio dei mezzi meccanici. Si stanno sperimentando sistemi con ali gocciolanti anche nell’interfila – come quelle in foto dell’Università degli Studi della Basilicata – per stimolare un maggiore sviluppo dell’apparato radicale lontano dal tronco, rendendo l’actinidieto più resiliente alla siccità e distribuendo l’acqua su una maggiore superficie, limitando il ristagno idrico.
Prospettive future
La ricerca sulla moria del kiwi è ancora in corso, con l’obiettivo di comprendere meglio le cause eziologiche della sindrome e sviluppare soluzioni tecniche sempre più efficaci. L’approccio integrato, che combina una gestione attenta del suolo e dell’acqua con pratiche agronomiche innovative, rappresenta oggi la strada più promettente per affrontare questa problematica. La speranza è che, con un impegno continuo nella ricerca e nell’applicazione di pratiche sostenibili, sarà possibile mitigare gli effetti di questa sindrome e garantire la sostenibilità a lungo termine della coltura dell’actinidia all’interno del Belpaese.
Donato Liberto
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