Per quanto antico, il problema della stanchezza del terreno è ancora oggi diffuso e, anzi, probabilmente in aumento a causa della forte specializzazione di intere aree agricole verso pochissime produzioni. In questo contesto, però, nuove prospettive sembrano aprirsi grazie alla teoria del self-DNA. Ne abbiamo con Mauro Moreno dell’Università di Napoli Federico II nel terzo numero di Fruit Journal magazine.
Il termine stanchezza del terreno indica la condizione di incompatibilità tra un suolo e una determinata specie vegetale causata dalla coltivazione ripetuta o prolungata della stessa specie sullo stesso campo.
Altri problemi noti agli agricoltori, come la malattia da reimpianto o da ristoppio, rappresentano casi particolari dello stesso fenomeno, ma sono caratterizzati dagli stessi sintomi: l’apparato radicale si sviluppa in modo stentato e le piante faticano ad assorbire nutrienti e acqua, appaiono meno vigorose, crescono più lentamente e risultano spesso più suscettibili a malattie e stress ambientali. In assenza di interventi mirati, la situazione tende a peggiorare gradualmente fino a rendere il campo improduttivo. Curiosamente, nonostante si parli tradizionalmente di stanchezza del terreno, la stessa dinamica di declino produttivo può interessare anche le monocolture fuori suolo o idroponiche a ciclo chiuso.
La stanchezza è un fenomeno con cui gli agricoltori fanno i conti da migliaia di anni. Verosimilmente, era già osservato dalle prime popolazioni umane sedentarie che praticavano l’agricoltura utilizzando ripetutamente gli stessi appezzamenti di terra. Ripercorrendo la storia, osserviamo che popolazioni umane diverse e distanti tra loro, hanno adottato tecniche simili per prevenire cali di produzione agricola. Queste strategie consistevano principalmente nella consociazione o nell’avvicendamento di specie vegetali diverse (rotazioni colturali o maggese), nella fertilizzazione organica e nell’allontanamento dei residui colturali dal campo.
Ancora oggi, la stanchezza del terreno è un problema diffuso, probabilmente in aumento a causa della forte specializzazione di intere aree agricole verso pochissime produzioni, dell’intensificazione delle stesse e del pensionamento di pratiche agronomiche tradizionali e potenzialmente utili.
Ma cosa causa la stanchezza del terreno?
Nel corso degli anni sono state formulate diverse ipotesi per spiegare il fenomeno. Nei decenni passati, alcuni tra i principali scienziati impegnati su questo tema, tra cui il professore italiano di arboricoltura Franco Zucconi, sostenevano che la causa più probabile della stanchezza fosse la produzione e il rilascio nel terreno, da parte delle singole colture, di sostanze tossiche per se stesse, ma non per le altre specie vegetali (Zucconi, 2003). Questo concetto è stato identificato con il termine auto-tossicità o auto-patia (in contrapposizione all’allelopatia – ovvero all’influenza negativa di una specie o di un individuo su un altro) (Singh et al., 1999).
Numerose sperimentazioni, osservazioni e deduzioni logiche spingevano a ricondurre l’origine di tali sostanze alla decomposizione dei residui vegetali e agli scarti del metabolismo delle piante (solitamente noti come cataboliti). In pratica, già agli inizi degli anni ’90, appariva abbastanza chiaro che alcune sostanze autotossiche fossero rilasciate nel suolo sia direttamente dalle piante vive – sotto forma di essudati radicali – sia durante la decomposizione dei residui colturali. Tuttavia, nonostante le evidenze sperimentali, mancava nella maggioranza dei casi un tassello fondamentale, ovvero l’identificazione chimica di tali sostanze auto-tossiche.
La teoria del Self-DNA
Solo nel 2015, un gruppo di ricerca dell’Università di Napoli Federico II, durante alcune ricerche in ambito ecologico sullo studio dell’autotossicità nelle comunità vegetali naturali, ha ipotizzato e dimostrato che la sostanza alla base della stanchezza del terreno fosse, piuttosto sorprendentemente, il DNA delle piante stesse (Self-DNA) (Mazzoleni et al., 2015).
In pratica lo studio mostrava che i frammenti di DNA in forma “extracellulare” (cioè fuori dalle cellule che compongono i tessuti biologici, anche detto DNA ambientale), che normalmente si accumulano nel suolo durante la crescita vegetale e la decomposizione dei residui organici, interferivano negativamente con la germinazione dei semi delle specie a cui quegli stessi frammenti di DNA erano associati. Gli stessi frammenti, al contrario, risultavano innocui per i semi o le giovani piante appartenenti ad altre specie.
Il DNA è in effetti la molecola che per definizione differenzia le specie biologiche e in questo senso riesce a spiegare efficacemente perché la stanchezza del terreno interessa di volta in volta solo determinate colture. Inoltre, rispetto ad altre molecole che pure si differenziano in una certa misura tra entità filogenetiche distinte (specie, generi, famiglie etc.), come RNA o proteine, come spiegato in studi successivi, il DNA possiede alcune caratteristiche peculiari e particolarmente coerenti con le osservazioni agronomiche ed ecologiche riguardanti l’autotossicità (Cartenì et al., 2016). Tra queste caratteristiche c’è ad esempio la buona resistenza del DNA ambientale alla degradazione, che soprattutto in determinate condizioni, è in grado di determinare un forte accumulo dello stesso nel suolo. O ancora, il fatto che – essendo idrosolubile – il DNA extracellulare è facilmente lisciviabile dall’acqua, per cui in alcuni contesti legati a particolari regimi irrigui la stanchezza si manifesta molto raramente o non si manifesta affatto.
Le soluzioni storiche contro la stanchezza del terreno nell’ottica del Self-DNA
Negli ultimi anni diverse ricerche e sperimentazioni hanno confermato ed ampliato la teoria del Self-DNA (Mazzoleni et al., 2015; Chiusano et al., 2021), evidenziandone alcune notevoli implicazioni biologiche ed ecologiche. Queste nuove conoscenze sono utili, tra l’altro, ad elaborare soluzioni innovative per il contrasto alla stanchezza del terreno e a comprendere meglio ed eventualmente perfezionare le tecniche storicamente note.
La rotazione colturale o il maggese, ad esempio, sono efficaci poiché, determinando un’alternanza di specie vegetali diverse, danno tempo al DNA della coltura principale di essere lisciviato, degradato o assorbito da altre piante. In modo simile, le consociazioni (e in misura ridotta gli inerbimenti) permettono a specie diverse di cooperare, alternandosi a livello radicale e occupando di volta in volta porzioni di suolo non auto-tossiche. Anche l’uso di portainnesti geneticamente diversi, che pure rappresenta un’importante soluzione alla stanchezza del terreno in frutticoltura, può essere interpretato come un parziale cambio di specie coltivata – perlomeno a livello radicale, dove i sintomi della stanchezza hanno origine. Infine, l’allontanamento o la bruciatura dei residui colturali evitano a monte il rilascio di massicce dosi di self-DNA nel suolo, mitigandone l’accumulo.
Una strada verso soluzioni innovative
Un discorso particolare può essere fatto per le fertilizzazioni organiche e i composti a base di microorganismi. Escludendo per ovvie ragioni l’uso di residui colturali della stessa specie, alcuni fertilizzanti organici e consorzi microbici permettono di incrementare la biodiversità nel suolo, “diluendo” il self-DNA con il DNA di altre specie e probabilmente stimolando l’attività microbiologica che ne velocizza la degradazione. Molti studi riguardo le interazioni tra il self-DNA e il microbioma sono ancora in corso e si spera possano fornire importanti indicazioni per lo sviluppo di nuove tecniche e soluzioni agronomiche contro la stanchezza. Prove e sperimentazioni recenti, ad esempio, stanno mettendo in risalto l’efficacia di particolari tè di compost, infusi o fermentati ricchi di microorganismi realizzati a partire da compost e altre matrici organiche. Alcuni di questi infusi, specialmente se utilizzati in modo costante in fertirrigazione, hanno permesso in tempi molto brevi di ricondizionare la rizosfera permettendo un efficace recupero dei terreni stanchi e delle coltivazioni in avanzato stato di declino.
A CURA DI: Mauro Moreno
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