È ancora presto, ma nei prossimi anni girando tra il reparto ortofrutta dei supermercati potremmo imbatterci nella prima banana geneticamente modificata, denominata dai ricercatori QCAV-4. Il risultato finale è nato dalla rimozione, in laboratorio, di un solo gene dei 25mila presenti in una specie selvatica di banana e dal successivo inserimento dello stesso nel codice genetico della varietà Cavendish, la più commercializzata al mondo. I ricercatori della Queensland University of Technology, guidati dal professor James Dale, hanno portato avanti per oltre venti anni le loro sperimentazioni nei pressi della cittadina di Humpty Doo, centro della produzione australiana di banane. Negli ultimi mesi aveva destato scalpore la notizia del primo ok alla commercializzazione della banana OGM da parte dell’ente regolatore Food Standards Australia New Zealand (FSANZ). Una decisione che, però, sicuramente farà scattare numerose polemiche, non solo dal punto di vista politico ma anche etico da parte dei principali Paesi esportatori.
Al momento, stando a quanto dichiarato dall’ente regolatore, la banana geneticamente modificata sarà presa in considerazione soltanto come “ultima spiaggia” nel caso estremo in cui la malattia di Panama si dovesse diffondere in modo significativo tra le piantagioni.
La modifica genetica, in sostanza, ha avuto come obiettivo principale quello di trovare un modo di continuare a commercializzare la varietà Cavendish, senza aver timore che quest’ultima venisse attaccata dalla malattia di Panama. Detta anche fusariosi è causata dal fungo TR4 (Fusarium tropical race 4), un patogeno che si presenta al suolo e – può capitare – che persista all’interno della piantagione anche per 50 anni.
Il fungo provoca il disseccamento inevitabile delle piante costringendo i coltivatori a bruciare tutto per evitare la sua diffusione, che avviene non solo tramite le persone e gli animali ma anche attraverso l’acqua. Il motivo alla base per la ricerca di modifica genetica è presto detto; per contrastare i sintomi dell’infezione non ci sono cure e il fungo è praticamente ineliminabile.
La malattia di Panama ha fatto la sua comparsa negli anni ‘90 tra le piantagioni di banane, varietà Cavendish, del Sud-Est Asitatico ma si è poi diffuso in Cina, India e altri Paesi produttori di banane, fino a diffondersi recentemente in America Latina e in Australia.
Non si possono dimenticare i motivi prettamente economici, visto che il valore complessivo del commercio globale delle banane si aggira attorno ai 10 miliardi di dollari. Le importazioni riguardano, per la quasi totalità, la varietà al centro della notizia, scelta tra le altre cultivar per un livello di zuccheri più o meno alto e soprattutto per la sua buccia più spessa, adatta per i lunghi spostamenti verso il Nord America e i Paesi europei.
Le banane commerciali, però, hanno un problema: sono tutte uguali. Essendo sterili, infatti, anziché riprodursi sessualmente vengono prorogate per talea, tagliando gli steli da una pianta madre. Tra gli altri motivi della ricerca genetica c’è appunto questa mancanza di biodiversità, a livello di mercato, che le rende estremamente vulnerabili agli attacchi batterici e fungini. Basti pensare che la prima banana commerciale, a livello mondiale, era della varietà Gros Michel, nota anche come “Big Mike”, colpita negli anni Sessanta dal fungo Fusarium tropical race 1.
Nell’ultimo “World Banana Forum” tenutosi a Roma, lo scorso marzo, nella sede della FAO (Food and Agriculture Organization) è emersa, dalle parole del direttore generale, Qu Dongyu, la necessità di pensare a un mercato delle banane libero dalla monocoltura intensiva della varietà Cavendish, vista l’innumerevole biodiversità del frutto. A lungo andare, ha spiegato il direttore, complici gli effetti del cambiamento climatico, potrebbe rivelarsi la strada errata da seguire.
I ricercatori del programma australiano di modifica genetica, però, non pensano di fermarsi a questo primo importante risultato.
Da una parte stanno attendendo che qualcuno, da qualche parte del mondo, crei una cultivar resistente al fungo con l’uso di mezzi più tradizionali. Nel mentre, però, nei laboratori stanno lavorando per arginare i possibili malumori rispetto alla commercializzazione del prodotto. Il team di ricercatori si sta soffermando sull’editing genetico, quello che alle nostre latitudini chiamiamo NGT (New Genomic Techniques) o TEA (Tecniche di evoluzione assistita), una modalità differente rispetto a quelli applicata per gli OGM, con la quale si manipolano i geni già presenti all’interno del codice genetico. Una scelta più digeribile per gli Stati Occidentali, i quali da mesi stanno investimento su questa tecnica.
Silvio Detoma
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