La malattia da reimpianto, o stanchezza del terreno, è un concetto chiave nell’ambito dell’agricoltura e della gestione sostenibile delle risorse naturali. Si riferisce alla progressiva perdita di fertilità e capacità produttiva del suolo a causa dell’uso intensivo e non sostenibile delle risorse agricole. Questa sindrome è spesso causata da pratiche come la coltivazione ripetuta della stessa specie vegetale in monocoltura nel corso degli anni, dalla sempre più ridotta durata dei cicli colturali e dall’uso eccessivo di fertilizzanti e agrofarmaci.
Cosa favorisce l’insorgenza di questa malattia?
Quando si progetta un nuovo impianto o il reimpianto, bisogna considerare che una delle possibili cause di insuccesso può essere direttamente correlata ad un’analisi poco accurata della storia agronomica e colturale del sito d’impianto in questione. Solitamente, infatti, soprattutto in Paesi come il nostro caratterizzati da un’antica tradizione agricola, per le produzione si tende a utilizzare terreni già sottoposti a precedenti cicli colturali. E questo, in caso di successioni di specie arboree – ma non solo – dello stesso genere o della stessa specie per più cicli colturali, può determinare l’insorgenza della malattia da reimpianto che di conseguenza risulterà tanto più evidente quanto minore è la distanza genetica tra le colture che si susseguono nello stesso terreno e dipenderà dal tempo intercorso dall’espianto del frutteto antecedente.
Strettamente collegata alla tendenza alla monocoltura, è poi la sempre più spinta specificità dei microrganismi presenti nel terreno, responsabili del processo di umificazione della sostanza organica. Favorita dalle tendenze attuali che avvantaggiano gli impianti superintensivi, l’adozione della monocoltura e l’utilizzo spesso poco controllato di fitofarmaci, questa specificità comporta infatti il depauperamento della biodiversità tellurica, fattore-chiave per una buona disponibilità di nutrienti nel terreno.
Il quadro sintomatologico è infine completato da problemi di natura tossicologica, legati alla presenza di residui radicali appartenenti al precedente impianto che determinano la presenza nel terreno di sostanze autopatiche, responsabili della tossicità intraspecifica, ovvero quella presente tra colture della stessa specie.
Quali sono le specie vegetali più predisponenti?
A causa della presenza delle sostanze autopatiche, la malattia da reimpianto è molto evidente all’interno del genere Prunus, in particolare in pesco, ciliegio, albicocco e susino, dove la sindrome si verifica sia quando la successione avviene con stesse specie, sia in presenza di specie che -seppur diverse – appartengono allo stesso genere, ma con un’incidenza minore. La malattia, però, si osserva spesso anche su melo, e in misura molto ridotta su agrumi e vite. A fare eccezione è l’olivo, specie che – seppur caratterizzata da impianti sempre più intensivi e da una successione a sé stessa praticamente secolare – non manifesta alcun sintomo da stanchezza del terreno.
Malattia da reimpianto: analizziamone le conseguenze
La stanchezza del terreno può portare a diminuzione della resa delle colture, erosione del suolo, compattazione e impoverimento della biodiversità nel suolo. Il suo manifestarsi è evidente sin dai primi periodi dopo l’impianto, con la comparsa di sintomi chiari di bassa vigoria delle piante legati allo sviluppo stentato delle radici, che possono peraltro presentare imbrunimenti e necrosi. Questo quadro sintomatologico mette la pianta nelle condizioni di non potersi nutrire in maniera ottimale, anche in presenza di terreni caratterizzati da un contenuto ottimale di elementi nutritivi. Spesso l’errore, infatti, è quello di confondere questa malattia con una carenza di macroelementi indispensabili per lo sviluppo delle piante. Bisogna quindi saper distinguere la malattia da reimpianto da un più generico e aspecifico concetto di perdita di fertilità del suolo agrario che, invece, risulta facilmente rimediabile con delle tecniche colturali da effettuare durante l’impianto precedente o durante il reimpianto.
Quali tecniche colturali possono contrastarne l’insorgenza?
Per affrontare questo problema e garantire la sostenibilità a lungo termine dell’agricoltura è fondamentale adottare pratiche agricole sostenibili, come la rotazione delle colture, l’uso responsabile di fertilizzanti e fitofarmaci.
Attraverso l’inerbimento dell’interfila o la distribuzione di compost o letame, anche la gestione della coltura precedente può contribuire a ridurre i rischi di insorgenza e, al contempo, arricchire in termini di biodiversità il substrato interessato dalle radici. Inoltre, soprattutto laddove si prevede il rischio di questa malattia, durante l’atto del reimpianto, è opportuno effettuare lavorazioni profonde del terreno, cercando di rimuovere i residui radicali della coltura espiantata.
Una pratica sempre più diffusa che permette di coltivare la stessa specie per diversi cicli colturali è infine quella che prevede l’utilizzo di materiale vegetale diversificato, in particolare portinnesti, che – spesso costituiti appositamente per questa problematica, come il portinnesto ibrido pesco x mandorlo (GF677) – consentono la successione di un pescheto anche per 2 cicli consecutivi.
Donato Liberto
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