L’Italia è al primo posto nel mondo per superficie coltivata a carciofo. Presente in tutte le regioni, la produzione si concentra soprattutto in Sicilia, Puglia e Sardegna.
Nell’ultimo numero della rivista, con Nicola Calabrese – ricercatore CNR-Istituto di Scienze delle Produzioni Alimentari di Bari – abbiamo approfondito origine, varietà e caratteristiche di questa coltura così centrale nel panorama ortofrutticolo italiano. Eccone la prima parte.
Origine e diffusione
Il carciofo, il cui nome scientifico è Cynara cardunculus L. subsp. scolymus (L.), è originario dei Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. La parola Cynara sembra derivare da cinis perché, secondo Columella, il terreno destinato a ospitare piante di carciofo veniva preventivamente arricchito con cenere.
Gli antichi Greci usavano la parola scolymus per indicare varie specie di cardo selvatico con foglie e capolini appuntiti, utilizzate per numerosi scopi. Dall’arabo al-karshuf, ardi-shoki, harshaf deriva il termine italiano carciofo, lo spagnolo alcachofa, il catalano carxofa; mentre dal neolatino articactus prendono origine la parola italiana ormai in disuso di articiocco, il francese artichaut, l’inglese artichoke, il tedesco artishoke.
Durante il I secolo a.C. gli agricoltori riuscirono ad addomesticare le piante selvatiche del carciofo, che in quel periodo erano consumate a scopo alimentare e farmaceutico, e a metterne a punto la coltivazione. Numerosi autori greci e romani, tra cui Marco Terenzio Varrone, Gaio Plinio Secondo e Lucio Giunio Moderato Columella, citano il carciofo nelle loro opere, tramandando ai posteri le tecniche di coltivazione dell’epoca e le proprietà medicamentose di questa pianta. Le proprietà del carciofo sono anche state descritte da Galeno, medico greco di Pergamo, e attraverso le sue opere il carciofo entra ufficialmente nella medicina e nella farmacopea.
L’Italia è al primo posto nel mondo per superficie coltivata (38.500 ha, corrispondenti al 33% della superficie mondiale) e produzione di capolini, pari a 376mila t (26% del totale mondiale).
Il secondo Paese produttore è l’Egitto con 315mila t, seguito dalla Spagna (215mila t). Partendo dal bacino del Mediterraneo, la coltivazione del carciofo si è diffusa progressivamente in terre lontane a testimonianza di un lungo percorso ricco di successo che è ben lungi dalla sua conclusione.
Nelle Americhe è stato introdotto dai migranti italiani, spagnoli e francesi e occupa posizioni di rilievo in Perù, Stati Uniti, Argentina e Cile. In Perù, fino a 15 anni fa, la coltivazione del carciofo era poco diffusa e praticata in piccoli appezzamenti sulle Ande a 2.000-3.000 metri di altitudine. Negli ultimi anni, con la diffusione in ambienti pianeggianti costieri sono stati raggiunti altri Paesi tra i quali Francia, Marocco, Algeria, Tunisia, Turchia e Grecia, in cui la coltivazione di questo ortaggio ha una lunga e consolidata tradizione.
In Italia il carciofo è presente in tutte le regioni, ma la coltivazione è concentrata in Sicilia, Puglia e Sardegna, che complessivamente rappresentano quasi il 90% della superficie e l’85% della produzione nazionale. Presenze significative della coltivazione del carciofo si registrano anche in Campania e Lazio.
Morfologia e panorama varietale del carciofo
La parte edule del carciofo è in realtà un bocciolo fiorale, chiamato capolino, più o meno compatto a seconda della cultivar e della fase in cui viene raccolto. Il capolino a sua volta è costituito da un peduncolo (denominato comunemente stelo o gambo), una base a forma di piccola coppa (ricettacolo, talamo o fondo) sul quale sono inserite quelle che vengono chiamate impropriamente foglie, il cui termine corretto è brattee, di forma diversa (allungata, ovale o semisferica) e colore variabile, dal verde pallido al violetto intenso, a volte dotate di spine all’apice. Le brattee esterne, più consistenti e fibrose, sono normalmente eliminate prima del consumo, mentre quelle interne – più tenere e carnose – costituiscono, assieme al ricettacolo (e spesso anche a una porzione di gambo), la parte edule del capolino. Sulla porzione più interna del ricettacolo sono infine inseriti i primordi fiorali costituenti il pappo, chiamato comunemente peluria o barba.
Il panorama varietale presente in Italia comprende numerose cultivar che hanno a volte una diffusione territoriale limitata e che prendono il nome della località di coltivazione.
Spesso la stessa varietà è denominata in modo diverso in aree differenti, generando confusione non solo per i nomi e gli eventuali sinonimi, ma anche in riferimento agli aspetti tecnici e commerciali.
In Puglia, Sicilia e Sardegna la produzione è basata prevalentemente su varietà di carciofo definite precoci, rifiorenti o autunnali, perché caratterizzate da un calendario di raccolta molto ampio che parte dall’autunno – in alcune zone con opportune tecniche agronomiche la raccolta dei capolini inizia già nella prima metà di settembre – per poi proseguire anche durante l’inverno (laddove le temperature lo consentono) e la primavera successiva. La caratteristica comune di tutte le cultivar di carciofo precoce o rifiorente è quella di produrre, oltre a un buon numero di capolini da destinare al mercato fresco (di solito la produzione autunnale, invernale e parte di quella primaverile), anche una notevole quantità di carciofini, raccolti nei mesi di aprile e maggio e destinati quasi esclusivamente all’industria di trasformazione.
Le cultivar più diffuse in Puglia sono il Violetto di Provenza, che si è affermato in provincia di Foggia, mentre in provincia di Brindisi è coltivato il Brindisino e in quella di Bari il Locale di Mola; nel territorio pugliese si segnalano inoltre impianti di Terom e Tema 2000.
In Sicilia prevale la coltivazione del Violetto di Sicilia, del Catanese e altri ecotipi a essi ascrivibili; molto comune e apprezzato sui mercati locali è il Violetto Spinoso di Palermo.
In Sardegna è maggiormente diffusa la cultivar Spinoso Sardo, con capolini muniti di robuste spine, ma dal sapore molto delicato, perfetti per essere consumati crudi, tagliati in fette sottili e assieme ai gambi, in pinzimonio. Terom, Tema 2000, Masedu e Romanesco completano l’offerta varietale della Sardegna.
Particolarmente diffuse nel Lazio e in Campania sono le diverse tipologie di carciofo romanesco (C3, Campagnano, Castellammare, Tondo di Paestum), cultivar con epoca di produzione tardiva con le raccolte che cominciano di solito dalla fine di febbraio e che proseguono fino a maggio. Di pregio notevole è la produzione del Carciofo violetto di Sant’Erasmo, coltivato sull’isola di Sant’Erasmo nella laguna di Venezia; i capolini principali, raccolti quando molto piccoli e chiamati comunemente “castraure”, sono consumati crudi.
Negli ultimi anni, in tutti gli ambienti cinaricoli nazionali sono state introdotte con successo cultivar ibride propagate per seme, destinate sia al mercato fresco che alla trasformazione industriale, e che si contraddistinguono per le produzioni elevate, l’ottima qualità dei capolini e la sanità delle piante.
La forte radicazione territoriale della produzione cinaricola italiana, caratterizzata in alcune aree da particolari condizioni pedo-climatiche, specifiche soluzioni di tecnica agronomica, profondi e antichi legami sociali e culturali con il territorio e le sue tradizioni, spiega la possibilità di valorizzare la produzione del carciofo di alcune zone con marchi DOP o IGP fortemente legati al territorio di produzione. Troviamo infatti in Puglia il Carciofo Brindisino IGP, nel Lazio il Carciofo Romanesco del Lazio IGP, in Sardegna il Carciofo Spinoso di Sardegna DOP e in Campania il Carciofo di Paestum IGP.
A cura di: Nicola Calabrese
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